martedì 26 giugno 2012

The importance of being Ernests

Ce lo ricordavamo con la barba, i capelli lunghi, un po' trascurato, quando, dopo un'infinita girandola di palle sparate a caso, tornei persi in ogni dove e contro avversari spesso del tutto sconosciuti, batteva Fish e trionfava nel Farmers Classic di Los Angeles. E' passato quasi un anno da allora, e il copione della tormentata carriera di Ernests Gulbis da lì non è cambiato: sconfitte dovunque e contro chiunque, anche al più infimo dei challenger. E anche una triste ma razionale suggestione: quella di lasciare il tennis, dettata più dalla sua genetica allergia all'abnegazione e all'impegno che da un reale deficit tecnico. Non riusciva più a vincere, condannato dalla (meritata) etichetta di potenziale fenomeno e dalle infinite possibilità economiche della sua facoltosa famiglia che rendono il tennis essenzialmente un passatempo per lui. Un hobby che, col tempo, si stava facendo sempre più annoso.
Preferisce la vita notturna all'allenamento, il sarcasmo alla retorica tipica dello sportivo. E' indubbio che la sua carriera risulti uno dei più grandi arcani nella storia del tennis. Non è mai riuscito a dare fondo completamente al suo straordinario talento, nè nessuno è stato mai in grado di motivarlo a sufficienza. Nè Cahill nè Gumy, e nemmeno il grintoso Canas, la cui veduta del tennis era troppo diversa da quella narcisistica del lettone. Pare siano invece diversi i risultati sotto la guida del semi-sconosciuto austriaco Gunther Bresnik, che Ernests gradisce particolarmente. 
Dopo aver perso per quattro volte di fila, rispettivamente contro Janowicz, Giraldo, Kukushkin e Bolelli (giocatori che, tolto forse l'emiliano, non dovrebbero nemmeno avvicinarsi per un saluto al lettone vista l'abissale discrepanza di talento che li frappone), quella di Wimbledon per lui sembrava più che altro una necessaria visita di cortesia. Il draw poi, non era stato affatto benevolo. Tomas Berdych, finalista della penultima edizione del torneo britannico, ex genio incostante proprio come il lettone, si apprestava ad affrontarlo sul centrale. "Vai sul sicuro"- gli avranno detto- "questo lettone non può farti paura". E in effetti, che Berdych fosse stra-favorito lo si percepiva dalle quote dei bookmakers ma anche dallo scarno palcoscenico del centrale. Il tempo di vedere momentaneamente la Sharapova fluttuare con grazia ed eleganza sul verde del centrale e sbrigare senza particolari difficoltà la pratica Rodionova, ed ecco che i due contendenti scendono in campo. 
E' senza barba, il lettone, col viso pulito e i capelli rossi, proprio come 4 anni fa, quando spaventò Nadal ed alzò più di qualche sopracciglio presso gli addetti ai lavori. A distanza di più di 1200 giorni, le speranze di vedere un Gulbis dominante si erano ormai esaurite, e il lettone sembrava ormai apprestarsi ad occupare un posto decisamente periferico nelle memorie degli esperti, quello riservato alle tragicomiche meteore dello sport. S'inizia: Gulbis dimostra di non aver perso, ma di aver anzi migliorato un servizio che si conferma tra i più potenti e decisivi del circuito. Da fondo gioca poco, il risultato delle sue ipocondrie è un nuovo movimento del diritto, molto più articolato e complesso, quindi, almeno nelle intenzioni, meno "ballerino". Molti gratuiti, tante palle spedite a metri dalle linee che delimitano il rettangolo di gioco, ma il servizio restava sufficientemente solido da assicurargli un contatto con il ceco. Era nervoso Gulbis, come egli stesso sostiene nell'intervista del dopo-partita, ma punto dopo punto ricominciava a prendere confidenza con la racchetta e i segnali dello stremante lavoro a cui il nuovo coach l'aveva costretto iniziavano ad intravedersi. Qualche volée leggiadra, e una serie di dropshot finalmente sensati che minano la scarsa mobilità di Berdych. Arrivano anche i primi vincenti col diritto, a una velocità che, come lo stesso lettone ricorda, possono raggiungere al massimo altri 2-3 nel circuito. Inizia a cedere anche la glaciale espressione di papà Ainars che si concede qualche applauso e qualche sorriso, ringalluzzito da una prestazione diversa rispetto a quelle a cui l'aveva abituato il figlio. Gulbis vince i primi due set, entrambi al tie-break, e si gira verso il suo box alzando con gioia il pugno quando Berdych sembrava aver spedito la palla fuori sul match point per il lettone. Il challenge richiesto da Berdych, protrae invece lo spettacolo ed Ernests rivolge un sorriso al papà, quasi a dire "proprio non si riesce a vincere". Pareva inevitabile il contraccolpo psicologico per un così tormentato atleta, e invece Gulbis continua a picchiare registrando valori altissimi nell'autovelox della Rolex. Di nuovo tie-break, di nuovo Gulbis. Vince anche il terzo set e finalmente sorride, soddisfatto di una prestazione finalmente all'altezza di tutti i complimenti e i paragoni che si sono sprecati al cospetto del suo raggiante talento. Un cenno d'intesa con Berdych, che lo omaggia con un espressione simile ad un "ah però, niente male", e poi l'applauso al pubblico di Wimbledon che, infondo, tifava per lui. 
E' una rinascita? Avevamo definito allo stesso modo la vittoria contro Federer a Roma, e i trofei vinti a Los Angeles e a Delray Beach, eppure la storia ci ha smentiti. Sono pronto a scommettere che contro Janowicz scenderà in campo lo stesso giocatore che è stato in grado di perdere da Sergei Bubka poco tempo fa. E paradossalmente è lo stesso giocatore che non avrebbe problemi ad affrontare a viso aperto i fab four e che renderebbe impronosticabile anche il più deciso degli incontri. Noi continueremo a crederci, sperando nella vittoria del talento, della genialità, della bellezza sulla cupa ma realistica forza della dedizione e della volontà. Intanto, quello di ieri è un ottimo risultato, per Gulbis e per il tennis. 


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martedì 19 giugno 2012

Da Piovaccari a Eder: la favola blucerchiata

E' andata esattamente come doveva andare. Risalire in A era il diktat imposto sin da subito dal popolo blucerchiato, l'innocente speranza con cui celare il sapore amaro lasciato da una retrocessione semplicemente apocalittica. I presupposti in effetti c'erano: il trio Sensibile-Bertani-Piovaccari rappresentava il top di quanto la scorsa stagione di B aveva offerto, e la scelta del mister, Atzori, per quanto criticata e mai pienamente accettata, sembrava potesse imprimere alla Sampdoria un trend giovanile e vincente. La proprietà ha investito tanto e oltre a Bertani e Piovaccari, sono arrivati Costa, Rispoli, Foggia, Bentivoglio, Castellini e dulcis in fundo Romero, la testimonianza più tangibile delle intenzioni societarie.


L'inizio, per la verità, è stato molto contratto, e dai pareggi iniziali, intervallati dai trionfi di Bergamo ed Empoli e dal roboante 6-0 inflitto al Gubbio, si è giunti ben presto all'interno di una fitta crisi di risultati, scaturita dalla clamorosa debacle interna contro il Torino, in un match di cui la Sampdoria aveva, per larghi tratti, dominato l'andamento. Gli esperti del settore iniziarono dunque ad aprire gli occhi e ad accorgersi che la squadra assemblata da Sensibile, per una lunga ed intricata serie di situazioni (in primis la presenza asfissiante dello zoccolo duro della Sampdoria disastrata della retrocessione) era ben lontana dall'essere una corazzata, criticando così quello stesso mercato che pochi mesi prima avevano promosso a pieni voti. Il fondo la Sampdoria l'ha toccato a fine ottobre: scendere in campo in un S.Francesco d'Assisi (di Nocera Inferiore) così scevro di tradizione calcistica sembrava essere un colpo sufficientemente grave per la storia della Sampdoria, e invece quello che si è dimostrato persino più tremendo è stato il risultato: un 4-2 che fa esaltare i tifosi nocerini e tremare la panchina di Atzori. Il tecnico di Colleferro trova acqua nel deserto con la vittoria contro il Crotone, ma la sabbia nella sua clessidra stava inesorabilmente terminando. E' la sconfitta interna contro il Vicenza che segna l'apice delle contestazioni e di una crisi di gioco e di risultati che accompagnava il cammino dalla Sampdoria da quasi un anno ormai. E' anche l'ultima partita di Atzori sulla panchina blucerchiata.


Esonerato Atzori, è Iachini a guadagnare il timone della traballante nave blucerchiata. Con il tecnico ascolano però, le cose non sembrano migliorare e il gap che divide la Sampdoria dai playoff è ancora piuttosto ampio. I tre pareggi iniziali non sembrano però preoccupare l'ex tecnico del Piacenza, che alla Sampdoria e ai suoi atterriti tifosi chiede solo una cosa: il tempo. La Sampdoria però perde a Pescara e inaugura il 2012 nel peggiore dei modi con il gol del sampdoriano Damonte che nei minuti di recupero designa la vittoria del Varese. Inizia un nuovo periodo di crisi e si ventila persino l'ipotesi di un ritorno dell'esile Atzori. Sensibile prende nota degli errori fatti in passato e li corregge mettendo in atto un totale processo di ricostruzione nel mercato di gennaio. Partono Bentivoglio, Accardi, Piovaccari e Dessena e giungono all'ombra della Lanterna oltre a Juan Antonio e Berardi, anche Pellè, Munari, Renan e, a seguito di estenuanti trattative, Eder. Ma soprattutto è partito Palombo, leader ed effigie dell’ultima decade blucerchiata, il cui impiego per ragioni tattiche e psicologiche limitava il resto della squadra.

La rimonta inizia con l'inaspettata vittoria di Padova, e prosegue anche dopo la sconfitta con il Torino, a seguito delle confortanti vittorie ottenute contro Verona ed Empoli. I playoff da utopia (a gennaio i punti dal sesto posto erano 11) diventano un obiettivo concreto a cui la Sampdoria punta con inesauribile fermezza. La squadra cambia totalmente volto: la manovra è adesso più fluida e l'estro di Juan Antonio e Foggia ben coadiuva il vigoroso centrocampo orchestrato dall'insostituibile Obiang e dagli ottimi Munari e Renan. La vera forza della Sampdoria di Iachini però, oltre ad una difesa sempre più solida ed inespugnabile, è l'attacco: Eder e Pozzi sono decisivi per la risalita della Sampdoria, ed è in particolare il cambio di marcia del brasiliano a determinare le ultime e decisive vittorie in campionato. La ciliegina sulla torta è la rete all'esordio di Mauro Icardi che permette alla Sampdoria di espugnare Castellammare di Stabia. La rimonta è compiuta, la Sampdoria si guadagna l'opportunità di giocarsi i playoff contro Sassuolo, Verona e Varese e si concede la passerella nelle ultime due uscite della regular season.


Alla trama mancava ormai solo il lieto fine per consacrarsi come favola. Quello la Sampdoria intendeva conquistarsela sul campo, coprendo ognuno di quei centimetri di cui Al Pacino parlava nel suo antologico discorso in "Ogni Maledetta Domenica", scongiurando un Rosenberg 2 con bravura e tenacia. No, la Sampdoria proprio non voleva sgretolare l'ennesimo sogno conquistato e costruito con così tanta fatica. Nulla ha potuto il Super Sassuolo di Fulvio Pea, la squadra che insieme a Pescara e Torino ha ininterrottamente dominato la Serie B, che si è dovuto arrendere all'umiltà e all'abnegazione di una Sampdoria scintillante all'andata ed eccessivamente sofferente al ritorno. Nemmeno il solido Varese di Maran ha sbarrato la strada alla Sampdoria, e ai colpi di Rivas e De Luca, i doriani hanno reagito col cuore, quello del capitano Gastaldello, che ha vissuto nel proprio elettrocardiogramma le gioie di Palermo, la delusione europea e la desolante retrocessione. E' lui a sancire la vittoria nell'andata ed è sempre lui nel ritorno ad erigere insieme al promettente Rossini un muro che nè Granoche nè Plasmati possono abbattere. Il finale era scritto: la Sampdoria stava correndo verso la A, tenace ed inesauribile proprio come Rispoli che, al 90' dell'ultima di una serie infinita di partite raccoglie le forze per un ultimo e decisivo sforzo prima di cedere il pallone a Pozzi. L'emiliano prende palla, guarda repentinamente Bressan: i cuori blucerchiati si fermano e accumulano l'insieme di sentimenti di una storia recente eccessivamente travagliata. Pozzi tira: è gol. I cuori tornano a pulsare e colorano l'Ossola di blucerchiato. Impazzisce anche il piazzale Kennedy così come le case, i salotti e i bar in cui ogni sampdoriano foresto seguiva con attenzione l'andamento del match. La Sampdoria è in A, è giusto così, ce lo siamo meritati.

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sabato 2 giugno 2012

Russia-Italia 3-0..ma è andata davvero così male?


Peggio di così difficilmente avrebbe potuto andare. La partita che avrebbe dovuto consolidare il credo tattico di Prandelli e zittire una volta per tutte le fastidiose ed incessanti voci extra-calcistiche, ha invece avuto un esito quasi catastrofico e rischia di mettere in dubbio anche la più basilare delle certezze acquisite dal ct. Quotidiani ed esimi esperti del settore hanno colto l’occasione per proporre le proprie innovazioni e criticare l’operato di Prandelli. Mi sembrano conseguenze decisamente eccessive per una squadra che ha sì preso 3 gol dalla Russia, ma che ha anche costruito un’immensa mole di palle gol tra il primo e secondo tempo, peccando in varie circostanze unicamente del killer instinct nelle situazioni decisive. In difesa, naturalmente, le cose sono andate diversamente, con almeno 7 palle gol chiare offerte alla Russia che, in occasione dei 3 gol, ha anche usufruito di gentili omaggi da Maggio, De Sanctis e Bonucci. Una prestazione quasi ridicola di una difesa però, composta per 4/5 da gente appena insignita col tricolore e che ha subìto meno gol in tutto l’arco del campionato. Nell’equazione, il termine ad aver spostato gli equilibri potrebbe chissà, magari essere, il mero (ma ugualmente grave) calo di concentrazione di una difesa che, appunto, non ha sbagliato un colpo nell’arco di una decina di mesi. Solo problemi psicologici, possibile? No, c’è qualcosa in più, perché la prestazione in sé, per quanto prolifica a livello offensivo, è stata comunque molto negativa. Molti, forse, però dimenticano che questa Nazionale, ancor di più rispetto a quella che nel 2010 si apprestava a farsi umiliare in Sudafrica, stia attraversando un colossale processo di rigenerazione. Basta leggere la lista dei convocati per accorgersi che Gattuso, Zambrotta e Camoranesi resteranno seduti in poltrona davanti la tv. Del glorioso gruppo del 2006 non restano che Pirlo, Buffon, De Rossi e Barzagli: quelli che, manco a farlo apposta, costituiscono l’ossatura di questa Nazionale. Il resto del gruppo è composto da giocatori giovani o comunque dall’esperienza internazionale tutto sommato limitata. Per quanto siano forti e rinomati alcuni elementi, la Nazionale manca dunque di quella naturale alchimia essendo ancora in fase embrionale, come hanno dimostrato le inspiegabili sconfitte antecedenti il tracollo di Zurigo. La squadra non è sufficientemente coesa e siamo ormai alle fasi conclusive di un totale riassetto generazionale che, temo, porti all’ennesimo fallimento. Poco sensate sono dunque le critiche di chi propone nuovi modelli tattici per Prandelli, che apparentemente sembra aver forzato un po’ troppo la mano con le innovazioni ma che, ha chiamato (aldilà di qualche sporadico errore che è naturale) i migliori giocatori esistenti in Italia. Godetevi l’Europeo dunque, e cercate di divertirvi, perché il complesso orchestrato da Prandelli vi farà divertire, ma non pretendete altro.